02/05/09

Apologia Pro Leopardi:

Questa è una lettera che ho scritto per un amico perso nel tempo e da tempo, non che sia morto ma è una vita che non lo vedo, quindi...
pubblico qui questa mia arringa per vedere se finalmente qualcuno accetterà la mia tesi o pure no!
Ma spero anche che Mirco finalmente possa leggere questa missiva.



APOLOGIA PRO LEOPARDI

C

arissimo Mirco spero che tu non ti sia dimenticato della nostra discussione sul pessimismo del Leopardi. Io ti dissi che il pessimismo leopardiano era un’invenzione dei critici moderni, insomma un’etichetta che gli stessi gli avevano accollato. E se ricordi bene, io non ti diedi una risposta soddisfacente; ANZI balbettai qualche scusa e ti piantai in asso. Ora sono pronto per tentare di spiegarti cosa intendevo col dire che il leopardi non va considerato un pessimista ma un disincantato realista

Una vecchia abitudine è quella di definire il pessimismo del Leopardi partendo dalla sua vita, anzi prendendo la stessa come unica fonte per ricavare indizi e poetiche (già Proust odiava il Saint Bouve perché usava questo metodo). In Italia fu il De Sanctis a inaugurare questo modo di fare critica, ma colui che ebbe maggior successo fu Benedetto Croce, che bollò la poesia leopardiana non idillica, come il prodotto di “una vita strozzata”[1]. Si sa che tutto quello che passa per le mani del Croce ha vita lunga e a maggior ragione se una sua “verità” è una verità sbagliata, come appunto quella della questioncella della poesia e non poesia leopardiana. Per smentire questa sua idea c’è voluta tutta la sensibilità di un Binni, che con i libro dal titolo “la nuova poetica leopardiana” prese in considerazione la poesia eroica del grande recanatese (in realtà il severo giudizio crociano è stato neutralizzato a più riprese e non in una volta sola come si potrebbe dedurre da questa lettera ; al Binni rimane però il merito di esserne accorto prima di tutti). Ebbene, Mirco, noi useremo lo stesso metodo (un po’ obsoleto, lo riconosco) per portare le nostre ragioni in superficie, in modo che tu, insieme a tutti quelli che leggeranno questa lettera, possiate giudicare .

Immagina un adolescente dalla sensibilità infinita … che nelle notti chiare , restava sveglio per osservare il cielo e la luna, immagina ora questo giovine che rovinato non dallo studio che fu la conseguenza, ma dalla mancanza d’affetto dei genitori, che non potevano capire il suo animo e il suo genio, questo fanciullo che ha voglia di gridare il al mondo il suo desiderio di vivere e di farsi conoscere, ma che è costretto a rimanere a Recanati in quanto la “gens Leopardis” non stava bene, pecuniariamente intendo. Il risanamento economico era toccato all’unica persona che fosse capace di riportare in attivo le casse vuote della famiglia, e cioè Adelaide Anticchi, la madre del nostro poeta, donna indiscutibilmente forte ma molto fredda verso i figli. Dunque cresceva in un ambiente non solo ristretto economicamente (quante rinunzie avrà patito?) Ma anche, praticamente senza l’affetto della madre e con quello paterno basato più sulla stima che non sul sangue (ciò almeno fin quando Monaldo non lo capì). Non solo, ma essendo i Leopardi la famiglia più blasonata di Recanati, dovevano salvare le apparenze, quindi, mantenevano un buon numero di servitori, la domenica si davano arie, ma per risanare il bilancio il resto della settimana viaggiavano con le toppe al culo e si nutrivano di pane e cipolle (ti dovresti ricordare, da antiche e ataviche rimembranze liceali, quanto tempo passò prima che Giacomo si potesse comprare un cappotto nuovo).

Questo particolare è importante per comprendere il comportamento del padre verso le numerose richieste del figlio di vivere fuori Recanati, con i proventi del proprio genio. Del resto appartenendo alla nobiltà, ogni forma di guadagno che non fosse quella tradizionalmente accettata (esempio quella delle rendite) era visto come un abbassamento di livello[2], ma anche se Monaldo avesse voluto soddisfare il figlio, di soldi non ce ne erano. Ma torniamo a noi, caro Mirco, e abbi un po’ di pazienza e seguimi nel mio poco (ne sono consapevole fino alla nausea) chiaro ragionamento. Restandogli solo l’affetto del padre, l’unico modo per tenersi questo affetto era di accontentarlo sempre più. Non solo; ma usa lo studio come un surrogato all’amore mancante. Il problema nasce quando si accorge di essere tremendamente portato allo stesso e di poter dare dei punti e padre (letterario di buon livello) ma a tutto il circondario, ed è da qui che nascere il suo desiderio di conoscenza, gloria, fama (chi l’avrebbe mai detto che la mancanza di affetto facesse questo effetto?).

Egli dunque si sente solo, ha la consapevolezza di essere (per colpa dei sette anni di Studio matto e disperatissimo) brutto e deforme (pare che di gobbe ne possedesse due, una davanti e una di dietro) e recluso com’è, è nella poco invidiabile situazione di essere isolato da quella vita che vorrebbe con tutte le sue forze vivere; ecco che allora crede di avere fallito, avverte che la sua vita sia una vita mancata ed a diciotto anni percepisce che per lui la vita e la morte hanno lo steso identico valore. Chi può confortarlo? Non la madre che lo ha chiamato più volte pazzo (e poi via come può una persona che è contenta quando muoiono dei neonati perché così vanno direttamente in paradiso!!!), non il padre che vorrebbe comprenderlo ma non può. Ecco che allora il poeta si allontana sempre più da loro: è tenuto in casa come un bambino e lo è nella pratica della vita. Ma ha una mente straordinariamente matura e studia, il Foscolo, il Monti L’Alfieri, cantori di una individualità eroica. Passa il tempo e diviene uno di loro, legge in una notte la vita dell’Alfieri e ne resta colpito, Anzi segnato a vita, ora il suo animo vive e palpita insieme a loro.

Le due patriottiche (“All’Italia” e “Sopra il monumento di Dante che si prepara in Firenze” rispettivamente del ) nascono di fatto da questo impulso eroico, impulso che non verrà meno nemmeno quando il suo animo si dirigerà verso una poesia più “Pessimista”.

Nel 1816 il poeta grazie a una serie di circostanze crede che la sua sia una vita mancata e desidera che tutti sappiano quale grande poeta è nato inutilmente e scrive la cantica “L’appressamento alla morte” e in dodici giorni compone cinque canti funerei su se stesso. La cantica ha un andamento petrarchesco (di moda nel diciassettesimo secolo), non è un componimento originale perché in realtà aspirava ardentemente alla vita (ti stupisce ciò?). C’è da rilevare il contenuto del quinto canto che è un grido di disperazione di che si sente grande e inutile (fatalmente inutile). La cantica ha valore autobiografico; scritta di getto da una giovane che desidera almeno di essere compianto da qualcuno. Questa esperienza è fondamentale per il giovane Leopardi, in quanto e la testimonianza che la filologia non lo appaga più, ed è ora incomincia a pensare alla filosofia.

L’unica sua speranza è quella di riuscire ad allontanarsi da Recanati, sente che il mondo che sta fuori è il suo mondo che li troverà gloria e amore. Dunque chiede ai genitori il permesso di lasciare il “natio borgo selvaggio” ma ottiene un netto rifiuto ed è da qui che ha inizio la lotta tra la vecchia e la nuova generazione (come in Alfieri) e nasce in lui lo spirito di ribellione. Era in questo stato quando conobbe il Giordani e finalmente vide la luce alla fine del Tunnel.

Lo studio dell’ambiente è fondamentale per capire e conoscere il Leopardi in quanto gran parte della sua vita si svolse tra le mura domestiche. Alla formazione del poeta dunque concorsero i seguenti motivi:

1. Il contrasto con i genitori.

2. Le aspettative che gli erano comunque rivolte.

3. L’incapacità di comprenderlo.

In definitiva a ben guardare il secondo punto e il terzo sono la causa o tra le cause (anche la singolarità dei genitori ha concorso) del primo punto.

In lui tali elementi shakerati insieme lo fecero sentire inutile, condannato a una vita grama, sventurata ed ecco se non altro spiegato il motivo per cui il suo pensiero corresse cosi spesso alla morte.

Ma la sua più grande paura era quella di essere dimenticato, si sentiva solo e tragicamente inutile; quello di cui aveva bisogno, realmente bisogno, era l’amore dei genitori, amore che non ricevette mai, da loro.

In queste condizioni tradusse i primi due libri dell’Eneide , e facendone più copie le spedì ai letterati più importanti dell’epoca[3].

Gli rispose con più benevolenza il Giordani che immediatamente diverrà il suo interlocutore principale, in quanto rappresentava per il giovane poeta l’unica finestra aperta su quel mondo che tanto bramava e che sentiva lontano fatalmente lontano.

Questa amicizia ebbe per il Leopardi un duplice effetto:

1. Lo sollevò dallo stato in cui si trovava.

2. Lo allontanò sempre più dal padre.

Monaldo dal canto suo accuso il Giordani di traviargli il figlio, in realtà Giacomo era già lontano quando incontro il Giordani. Nel settembre del 1818 il Leopardi ricevette una lettera dal suo Pigmalione, dove gli rese noto che sarebbe andato a trovarlo, questo incontro non avrà altro effetto se non quello di accendere in Leopardi la voglia di uscire da Recanati. Infatti un anno dopo tenterà addirittura la fuga, si farà spedire il passaporto di nascosto fingendo di avere il consenso del padre, ma il documento cade nelle mani di Monaldo il quale sventerà il tentativo, per il poeta è la fine[4]. Esistono tre lettere a proposito di questo fatto, la prima è indirizzata al padre, la seconda al fratello Carlo, la terza al Giordani. Una quarta testimonia la fuga a tentativo avvenuto, scritta a Saverio D’Ajano ed è con questa missiva che la giovinezza del poeta è finita.

Vedi Mirco, le circostanze per una adolescenza diversa e sopratutto felice non ci sono proprio state; se avesse avuto la benché minima possibilità di realizzare ciò che maggiormente ambiva, forse non sarebbe divenuto ciò che è stato. Ma tant’è che è andata nel modo che sappiamo; sai anche mia nonna se avesse avuto le ruote non sarebbe stata una nonna bensì una carriola (senza offesa per le nonne). Comunque mi devi credere, i presupposti per una poetica diversa c’erano tutti[5].

Il 1818 fu per il Leopardi un anno ricco di emozioni in cui abbozzo molte opere, ciò perché la corrispondenza con il Giordani accrebbe in lui la consapevolezza del proprio valore e crebbe anche l’amore per la patria. Da qui nascono le due patriottiche e con queste due canzoni egli si vuole presentare all’Italia e agli italiani con la toga del vate. E qua ha la sua prima vera delusione, cioè si accorgerà che gli italiani non ne vogliono sapere di combattere per la loro patria (questo fu il vero problema del risorgimento in Italia, l’Italia era una astrazione geografica, una nazione che esisteva solo nella mente di qualche sparuto e illuso intellettuale). Vedremo più tardi cosa comporta questa dolorosa constatazione. A noi ora interessa registrare questo trauma, dunque egli vuole fare poesia e opera d’azione. È poesia letteraria[6], dove Leopardi si atteggia oratoriamente con personificazione (si appaia a Simonide) e con interrogazioni retoriche. Devi stare attento Mirco, perché se è falsa l’ispirazione e il tono, non lo è il sentimento di dolore che qua è fuso con l’Italia[7]. Dopo il tentativo di fuga, fallito in modo così miserevole, scrisse altre poesia , così mentre soffriva, nasceva il grande poeta, ma è impegnandosi con la produzione civile che gli vennero i primi dubbi. Ti avevo già accennato che la sua più grande paura era quella di essere dimenticato, di cadere nell’oblio. Ora si insinua in lui il dubbio di essere solo nella battaglia civile, di essere anche l’unico che vuole scaldare il petto degli “italiani” per la loro patria. Vide che gli altri letterati più che interessati all’Italia e alle sue disgrazie, si sprecano in ridicoli battibecchi tra di loro, come ad esempio lo scontro campale fra classicisti e romantici[8]. Questa scoperta gli fu fatale, nuovamente si sentì solo e in questa solitudine percepirà una nuova poesia. Si ripiegherà su se stesso, si scruterà, scoprendosi solo e abbandonato, incapace di vivere e dunque di noi poter assolvere il compito (che si era procurato con tanto zelo) di poeta vate. Ecco allora il colpo di genio: si sollevò sopra se stesso, si osservò e concepii una poesia nuova, una poesia che come tema centrale ha i suoi sogni infranti. Farà nascere la sua nuova poesia dal contrasto che c’era tra le sue aspirazioni e i suoi desideri (il desiderio d’amore, di vita e di patria) e la cruda realtà. Vedi Mirco, pian piano ti ho portato ad un punto in cui, se non proprio ritrattare, almeno devi riconoscere che il nostro poeta non aveva tutti i torti.

Ma il tempo preme ed è arrivata l’ora che io dipani il primo gomitolo, ovvero che io finisca ciò che avevo lasciato in sospeso: dunque, l’oblio è la cosa che più di tutto fa paura al nostro poeta, perché? Perché teme la caducità, sa che il tempo a sua disposizione non è molto, quindi che vuole tramandare il suo testamento intellettuale (perché questo fanno i poeti) ai posteri deve fare in fretta. Ma se la capsula temporale viene perduta, se il messaggio dunque non potrà arrivare ai posteri, che succede? Egli non potrà ottenere la fama imperitura quindi sarà destinato a cadere nell’oblio. Ecco fatto, Cesare direbbe che il dado è tratto, quando si alzerà sopra se stesso per scrutarsi, volgerà il suo sguardo anche sulla storia, e si accorgerà che la caducità è un male comune a tutta l’umanità. Infatti osservando per esempi la storia di Roma, vedrà che tutto di quella gloriosa civiltà è perduto, tranne qualche sparuto monumento. Ricordi:

E fieramente mi si stringe il core,

A pensare come tutto al mondo passa,

E quasi ombra non lascia

“La sera del dì di festa”

E di ciò voi non potete sicuramente dargli torto.



[1] Per una migliore comprensione si può vedere il capitolo sul Leopardi, nel suo libro dal titolo emblematico “Poesia e non Poesia”.

[2] Considera il fatto che l’esercizio letterario a Recanati era considerato poco più che un hobby, ciò perché il tempo in questa piccola cittadina marchigiana si era fermata al medioevo, tutt’altra situazione versava invece nelle grandi città.

[3] Le spedì esattamente al Giordani, al Monti, e al Mai.

[4] Forse l’Infinito nasce proprio grazie a questa esperienza.

[5] Questi sono;

1. La sensibilità del nostro poeta.

2. La sua voglia di vivere e il suo bisogno d’affetto.

3. La straordinaria immaginazione che possedeva.

4. L’attitudine ad amare, cosa che gli riuscì solo con Carlo e Paola, i suoi amatissimi fratelli.

[6] Questo perché secondo me non è possibile fare poesia epica se non c’è un’unità di intenti e d’ideali tra chi compone e narra e che ascolta. RVB.

[7] Sto parlando delle due patriottiche, e in primis della canzone “All’Italia”.

[8] Ricordati che anche a lui interessò questo dibattito, ma finì per disinteressarsene completamente (o quasi). Forse è da leggere su questa riga la sua decisione di non insistere nel volere pubblicare a tutti i costi il suo “Discorso di un italiano introno alla poesia romantica”. L’argomento sarebbe molto interessante, ma sarebbe troppo lungo e questo non è il luogo adatto per discutere sul romanticismo, o sul presunto classicismo del Leopardi.


Nessun commento:

Posta un commento